Perché il community organizing a Roma?

19.02.21 | Letture, Percorsi locali, Roma

Ci sono quattro sfide possibili per le organizzazioni della società civile di Roma rispetto alle quali il community organizing può contribuire a fornire strumenti di trasformazione.

La prima è una sfida di profondità 

Una delle dinamiche che indebolisce l’associazionismo a Roma è la sua estrema frammentazione e la competizione tra associazioni. Come si legge nei risultati della ricerca-azione condotta dal Forum disuguaglianze diversità a Roma, si tratta di “presidi sparsi che non fanno sistema né condensa”.

Come afferma ad esempio il parroco alla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro ad duas lauros del quartiere Torpignattara, Padre Edmilson Mendes, “ci sono tanti gruppi, ognuno difende il suo progetto, la sua proposta, e ha apertura solo verso il suo ceto politico o sociale. Non vi è ascolto degli altri”.

Secondo la sociologa della Sapienza Silvia Lucciarini, “il processo di urbanizzazione della capitale, a macchia di leopardo e diseguale, ha contribuito a determinare una frammentazione micro-locale delle pratiche di associazionismo, con potenziali effetti disgregativi sul capitale sociale”. La dimensione micro-locale è da una parte la base dell’intensa vita di quartiere che si realizza in diverse zone della città, ma allo stesso tempo impedisce la creazione di una società civile in grado di divenire protagonista a livello in cui vengono prese le decisioni cittadine. Finora, tranne encomiabili eccezioni, scrive Ernesto D’Albergo, “movimenti, comitati, associazioni, non hanno mai individuato in questo cambiamento scalare un’opportunità per porre con maggiore potere negoziale sfide di democratizzazione del governo urbano e ottenere una soddisfazione di bisogni sociali e diritti che spesso richiederebbe di condurre politiche oltre la scala di prossimità”.

Come nota anche Alessandro Coppola, “la rete ereditata dei comitati di quartiere sviluppatasi a partire dagli anni Settanta nelle borgate romane appare complessivamente inadeguata a svolgere appieno questa funzione. Da questo punto di vista, occorrerebbe valutare l’opportunità di forme attive d’investimento sulle capacità locali per mezzo di quei programmi di leadership building e di community building che hanno spesso accompagnato lo strutturarsi delle arene negoziali dell’urbanistica e delle politiche urbane in diversi contesti internazionali”.

Occorre saper creare organizzazioni aggreganti ed inclusive oltre la scala di quartiere. Queste organizzazioni non si sostituiscono alle organizzazioni esistenti, ma creano un veicolo che consente la loro coalizione intorno a interessi comuni. Inoltre, si rivolgono non tanto alle associazioni tematiche, ma ai luoghi dove i residenti si incontrano al di là di convinzioni ideologiche o attività prestabilite, come le scuole, le parrocchie e gli altri luoghi di culto, i centri anziani, i centri sportivi, i centri aggregativi, le sedi locali dei sindacati.

Come scrive il community organizer Ernesto Cortes, Jr. 

“Lo sviluppo di tali relazioni pubbliche sarà possibile solo nella misura in cui vi è una istituzione, una organizzazione a base allargata, che insegna alla gente comune come coinvolgere gli altri in conversazioni e discussioni, riflettere sulle loro azioni, e consentirgli di farsi giudizi politici informati. Questa deve essere un’organizzazione-mentore che coltiva la curiosità, la fantasia, e una visione di ciò che è possibile per i cittadini e le loro famiglie. Limitarsi a progettare programmi isolati e renderli disponibili ad una comunità non espanderà la capacità, la visione e l’acume politico dei residenti della comunità”.

La seconda è una sfida di leadership

La leadership non è identificare qualcuno da poter seguire, ma invece coltivare le motivazioni di ogni singolo insieme a un ambiente incoraggiante e facilitante. Se continuiamo a parlare di quello che dovrebbero fare gli altri (chi non si impegna, chi ha convinzioni sbagliate, chi governa), senza partire da noi stessi, le nostre motivazioni e capacità di azione, non sarà possibile creare una leadership in grado di rappresentare un reale potere di cambiamento.

La terza è una sfida di culturale

Ben più di un 1/3 dei tessuti urbani residenziali di Roma è “di origine abusiva” e il 41% della popolazione risiede in “aree di origine abusiva”. Come scrive l’urbanista Francesco Montillo questa modalità di costruzione della città ha dato vita a “territori poco governati” e a “una periferia che si è costruita da sola, dove l’assenza di un progetto pubblico (…) ha permesso che fosse l’egoismo privato a prevalere in quartieri in cui lo sviluppo ha seguito logiche di gestione individuale del territorio, orientate alla netta prevalenza dell’uso privato degli spazi, sottraendo risorse e aree che avrebbero potuto creare città e collettività”. Mentre all’inizio in questi agglomerati non mancavano “un certo spirito comunitario” e di solidarietà creato proprio dalle difficoltà iniziali, “attualmente questo spirito si è molto perso”. 

I problemi sociali non derivano dalla mancanza di soluzioni tecniche. Derivano anche da dinamiche di potere che impediscono il corretto dispiegamento di risorse verso le possibili soluzioni. Analizzare, comprendere, relazionarsi e negoziare con le dinamiche di potere e i processi decisionali istituzionali rappresentano una sfida necessaria se si vogliono ottenere cambiamenti sistemici sul medio-lungo periodo.

La quarta sfida riguarda il rapporto con le istituzioni

Pur non mancando in Italia esperienze diffuse di volontariato, associazionismo e cura dei beni comuni, i sociologi Loredana Sciolla e Nicola Negri sottolineando come “il vero problema è quello dell’isolamento dello spirito civico dalla partecipazione politica e della conseguente difficoltà di stabilire delle sinergie fra di loro (…), di rigenerare quella fiducia nelle istituzioni in assenza della quale il senso civico resta una virtù privata”. La conseguenza, come ha spiegato il consigliere della Regione Lazio, Daniele Fichera, rispetto agli enti locali a Roma, è che “l’interesse del dipendente piuttosto che dell’impresa che esegue il servizio è molto più rilevante dell’interesse del cittadino utente finale, perché arriva a me decisore politico in forma molto più diretta, esplicita e pressante di quanto arrivi l’interesse generale, per il semplice motivo che l’interesse generale non ha canali di rappresentanza”. 

La proliferazione di iniziative micro territoriali, la disabitudine a pensare e agire su prospettive di lungo periodo, l’assenza di responsabilizzazione, le chiusure ideologiche, la difficoltà a formare alleanze trasversali, sono “vizi” delle istituzioni cittadine che si riproducono sul tessuto associativo romano.

A un diffuso cinismo sulla possibilità di comportamenti istituzionali diversi da quelli a cui siamo abituati, si unisce una dipendenza dalle istituzioni sia in termini di fondi, che di legittimazione ad agire, che di immaginazione di processi di partecipazione diversi.

Il community organizing

La visione alternativa si fonda invece sulle pratiche di incoraggiamento di una leadership diffusa, sull’ascolto delle motivazioni e delle risorse presenti in una comunità, sulla creazione di coalizione civiche in grado di mettere insieme prospettive e organizzazioni diverse rispettandone l’autonomia, sulla capacità di leggere e disegnare soluzioni in modo autonomo dalle pratiche istituzionali disfunzionali esistenti.

Organizzando le associazioni dei cittadini e i residenti nell’ascolto dei bisogni del territorio e nella loro traduzione in richieste di politiche pubbliche a seguito di un’attenta analisi dei processi decisionali, il community organizing crea un collegamento tra attivazione della società civile e istituzioni.

Nessuno nasce cittadino/a. Come ogni cosa che ha valore e si fonda su una saggezza conquistata autonomamente, anche la cittadinanza richiede il coinvolgimento in processi trasformativi.

Fonti

[1] “Diamo ossigeno ai quartieri: lavori in corso”, Forum disuguaglianze diversità, 16 aprile 2018

[2] Carmelo Russo e Francesco Tamburrino, “Luoghi comuni, luoghi in comune. Percorsi di dialogo e conoscenza a partire dai luoghi di culto della Provincia di Roma”, Associazione Centro Astalli, 2015

[3] Silvia Lucciarini, “Frammentazione urbana e esperienze associative: il caso di Roma”, Rivista online di Urban@it, 2/2016, p. 2

[4] Ernesto D’Albergo, “Perché è difficile costruire la Città metropolitana a Roma: un’interpretazione sociologica”, Urban@it Background Papers, ottobre 2015, p. 10

[5] Alessandro Coppola, “Vetero-liberismo di borgata. Urbanistica e attivazione degli abitanti nella ‘città da ristrutturare’. I casi delle borgate Morena e Centroni”, in “Le forme della periferia”, Centro per la riforma dello Stato, 2010

[6] Carlo Cellamare, “Processi di auto-costruzione della città”, in Urbanistica Tre, n. 2, maggio-agosto 2013

[7] Francesco Montillo, “Esportare fuori Roma i rifiuti di Roma”, in “Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma”, Roma, Donzelli, 2016, p. 144

[8] Carlo Cellamare, op. cit., p. 13

[9] Loredana Sciolla e Nicola Negri, “L’isolamento dello spirito civico”, in “Il paese dei paradossi. Le basi sociali della politica in Italia”, Carocci, 1996, p. 143

[10] Fichera Daniele, intervento al convegno “Una Città da Salvare. Le radici del disastro e il possibile riscatto della Capitale”, Roma, 24 maggio 2015

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