Il community organizing parte dalla premessa che 1) i problemi che devono affrontare le comunità dei quartieri poveri non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci, ma della mancanza di potere per implementare queste soluzioni; 2) che l’unico modo per le comunità di costruire potere di lungo periodo è organizzando le persone e il denaro intorno a una visione comune; e 3) che un’organizzazione praticabile può essere conseguita se una leadership indigena a base allargata – e non uno o due leader carismatici – può unire insieme i diversi interessi delle proprie organizzazioni locali.
La New York della fine degli anni Settanta era molto diversa da quella che conosciamo oggi. Anni di recessione e declino industriale, l’esodo di milioni di bianchi nei sobborghi avevano lasciato in città i più poveri, e le strade di quartieri come il Bronx e Brooklyn invase da trafficanti di droga, prostituzione e degrado urbano.
Il 13 luglio del 1977 un black out di 25 ore portò la città nel caos più totale. Scoppiarono rivolte, saccheggi e incendi dolosi. Quando le luci tornarono la polizia aveva arrestato 3.000 persone, e le prigioni non avevo una capienza sufficiente per contenerle. La popolazione declinò in pochi anni da 8 a 7 milioni.
Diversi organizer formatisi nella Brooklyn est in quegli anni mi hanno parlato di una sorta di zona di guerra. Tuttavia è proprio lì che l’Industrial Areas Foundation ha ottenuto uno dei suoi successi più straordinari. Guidata da Michael Gecan, l’attuale direttore che mi ha invitato qui negli Stati Uniti, dal vescovo Francis Mugavero della Diocesi di Brooklyn che contava circa mezzo milione di cattolici, e da altri leader religiosi, East Brooklyn Congregations (EBC) iniziò un’incredibile campagna di rinnovamento urbano attraverso il community organizing.
Partirono con piccole richieste che potevano essere vinte, creando quindi fiducia nel processo in una popolazione che aveva perso speranza. Pulizia dei locali dove veniva venduto cibo, segnaletica stradale, rinnovamento dei parchi, bonifica dei lotti di terra vuoti.
Successivamente EBC lanciò il suo piano per la costruzione di 5.000 case a prezzi accessibili, per far sì che famiglie della classe media potessero tornare ad abitare nel quartiere e stabilizzarlo. Il progetto venne chiamato “Neemia” dal nome del profeta che ricostruì Gerusalemme. Parte raccogliendo finanziamenti privati, e parte facendo pressione sul sindaco per un piano di prestiti da parte della città ripagato man mano che le case venivano vendute, EBC riuscì nell’intento. E oggi quel quartiere ha quest’aspetto.
A partire da allora grazie all’azione delle affiliate locali dell’Industrial Areas Foundation sono state costruite o ristrutturate oltre 1.000 case a prezzi accessibili nel Bronx, 1000 a Baltimore, 250 a Washington. Qui a Milwaukee in un solo quartiere e in soli 2 anni sono state ristrutturate 57 case abbandonate a seguito dei pignoramenti delle banche.
Bella storia, tuttavia come si applica a Tor Sapienza, Tor Bellamonaca, e alle tensioni sociali esplose in questi ultimi mesi intorno all’immigrazione, i campi rom, l’occupazione degli alloggi popolari?
Di questo ho parlato nell’ultimo staff meeting a cui ho partecipato qui a Milwaukee, condividendo alcuni dati e fatti sull’Italia aggiornati agli ultimi eventi.
Il community organizing non ha sempre successo, tuttavia lo ha spesso, e dove nessuno penserebbe che sia possibile un cambiamento. Quello su cui gli organizer dell’Industrial Areas Foundation ripongono fiducia è il processo che hanno sviluppato e testato per decenni, in decine di città, in almeno 5 paesi diversi. Per questo dedicano moltissimo del loro tempo alla formazione a questo processo. E’ un modello inventato da Saul Alinsky negli anni ’30 a Chicago, e che da allora è stato testato, ampliato, modificato incessantemente.
Potere relazionale
Rob English, veterano di guerra ed esperto organizer, trasferitosi a Baltimore dopo diversi anni di attività a New York, mi spiega come Build (Baltimoreans United for Leadership Development), l’affiliata locale della IAF, «non è un’organizzazione tematica, né territoriale. È un’organizzazione “culturale”. Il suo campo di azione sono le relazioni umane e il suo obiettivo è dare alle persone un senso di potere, di capacità di agire».
Il tema del potere è centrale. L’inchiesta “Mafia capitale” dimostra chiaramente come il terzo settore, nonostante i suoi sforzi e buone intenzioni, possa divenire totalmente controllato da parte della classe politica in combutta con imprese private e criminalità organizzata. Il taglio dei fondi pubblici e la conseguente chiusura di molte realtà è un altro esempio di come la società civile priva di potere sia in mano a decisioni prese da altri.
Per questo per gli organizer “il potere viene prima degli obiettivi”. Può sembrare un’affermazione cinica, ma lavorando a contatto diretto con le persone, gli organizer sanno che se è vero che il potere corrompe, «anche l’impotenza corrompe, forse in modo più pervasivo del potere». Saul Alinsky ha descritto bene la frustrazione di fronte a cui si trovano spesso gli attivisti più generosi: «Quando parli con una persona qualsiasi ti trovi a confrontarti con cliché, un insieme di risposte superficiali e stereotipate, e una generale mancanza di informazione». Quello che secondo Alinsky non è chiaro a molti attivisti, missionari e educatori, «è semplicemente che se le persone sentono di non avere il potere di cambiare una situazione negativa, allora non pensano a come farlo».
Ma il community organizer si basa su un potere diverso da quello che siamo abituati a conoscere. Un potere relazionale, opposto a quello che definiscono il potere dominante. Il potere relazionale comporta la mobilitazione di molti. Il potere domaninante è esercitato da pochi. Un altro modo di distinguerli è parlare di “potere fra” e “potere sopra”.
Scrivono anche:
Una persona che conosce sé stessa è in grado di fare un passo fuori da sé e osservare le proprie reazioni. Per essere efficace politicamente devi essere in grado di “andare fuori da te”.
Il potere, ripetono gli organizer, è esercitato in due modi. Ricchezza organizzata e persone organizzate. Il potere della società civile non potrà mai venire dalla ricchezza, ma dall’organizzazione delle persone in modo consistente e persistente.
Organizzazioni a base allargata
Quando arrivano in un territorio, di solito i quartieri più poveri e malfamati delle città americane, gli organizer lavorano alla paziente tessitura di relazioni con quelle che chiamo le “istituzioni ancora”, le organizzazioni stabili della società civile, anzitutto le chiese di ogni confessione religiosa e le scuole, ma anche sindacati, comitati di quartiere e centri anziani. Il loro obiettivo è rafforzare le istituzioni della società civile. «Le organizzazioni dell’Industrial Areas Foundation costruiscono il loro potere sviluppando coalizioni multireligiose, multirazziali e multietniche».
La formazione di leader locali
«Per avere il potere di agire sui problemi e cambiare il mondo c’è bisogno di organizzare le persone – moltissime persone». I 25 incontri relazionali che ogni community organizer è tenuto a fare a settimana hanno come scopo principale quello di trovare i leader locali. Un leader è una persona che ha un seguito di persone che può assicurare. Deve avere molte doti, ma la prima è che deve sapersi relazionare.
«Per avere 1000 persone dobbiamo poter contare su 75 persone che hanno un seguito», spiega Keisha Krumm. «Cerchiamo persone di questo tipo che vogliono agire, e con loro spendiamo la maggior parte del nostro tempo».
Una volta individuati i leader vengono invitati alle numerose occasioni di formazione che i community organizer effettuano di continuo. «Le organizzazioni dell’Industrial Areas Foundation sono istituti per lo sviluppo delle arti pubbliche della costruzione di relazioni, dell’analisi del potere, nel negoziato e del compromesso, del discorso pubblico e del giudizio politico».
Il ciclo dell’organizing
«Tutto il nostro lavoro inizia con l’ascolto», spiega Keisha Krumm durante il training che chiamano “l’università di Common Ground”. Una campagna di ascolto può durare mesi, e implicare centinaia di incontri relazionali, decine di “sessioni di approfondimento” di gruppo, e anche azioni porta a porta per ascoltare i bisogni e le idee dei residenti. «Quello che sostiene tutto il processo», spiega Keisha, «è comprendere le storie delle persone, le loro motivazioni profonde, e quindi i loro interessi personali».
All’ascolto segue la ricerca. Vengono formati team di ricerca per approfondire alcuni dei temi emersi. «Prima di imbarcarci in un’azione facciamo tra le 50 e le 100 azioni di ricerca», spiega Keisha. Le domande a cui si cerca di dare una risposta sono:
– Si tratta di un problema o di una questione?
C’è una domanda specifica a cui possiamo lavorare? Chi ci deve seguire sarà in grado di capire cosa vogliamo? Se vinciamo, ci sono benefici reali, tangibili e misurabili per le persone? Ci sono delle storie per illustrate questa questione? C’è rabbia intorno a questo problema?
– Leader?
Abbiamo leader arrabbiati su questa questione che vogliono guidare una campagna? In che modo questa campagna potrà aiutare a formarli e svilupparli?
– Possiamo vincere?
Con chi dobbiamo negoziare? Quali sono i loro interessi profondi? Quali punti di forza possiamo azionare rispetto a loro? Chi saranno i nostri alleati? Chi ci sarà contro?
Fatto questo si passa all’“analisi del potere”. Per essere efficace, infatti, l’azione concertata dei cittadini deve individuare il target giusto, ossia «le persone che possono dire dei sì o dei no, che possono effettivamente decidere». Nel caso della campagna contro i pignoramenti delle banche qui a Milwaukee, alla prima lettera inviata per chiedere un incontro, Well Fargo rispose: “grazie Common Ground per avere richiesto un nostro mutuo. Vi ricontatteremo al più presto”. Ci volle molto tempo, incontri e ricerca per individuare la persona giusta a cui indirizzare l’azione. Alla fine Well Fargo contribuì a donare insieme ad altre 4 banche responsabili oltre 33 milioni di dollari per far fronte alle conseguenze della crisi dei mutui subprime a Milwaukee.
Alla ricerca segue l’azione. «L’azione è per un’organizzazione quello che l’ossigeno è per il corpo. Per essere efficace deve essere indirizzata a calcolata. Non viviamo per respirare, respiriamo per vivere». Inoltre, «la vera azione è nella reazione dell’avversario».
Per questo all’azione segue la valutazione. «Nelle buone organizzazioni civiche – ha scritto il direttore della IAF Edward Chambers – ogni azione pubblica è seguita da quella che chiamiamo valutazione, perché non vogliamo perdere l’opportunità che l’azione ci ha fornito per imparare. Non è tanto importante quello che facciamo, quanto quello che l’altra persona fa o come il mondo fisico ci risponde. Le nostre azioni inducono le loro reazioni e allora è nostro compito usare quella reazione per intraprendere la nostra azione successiva».
Tuttavia è un ciclo, e ogni volta ricomincia da capo. Ascolto, ricerca, azione, valutazione, ascolto,…
I sei maggiori punti di forza dell’Industrial Areas Foundation
Per concludere, i punti di forza di questo modello di organizzazione della società civile sono:
- Le organizzazioni IAF hanno un metodo in grado di sviluppare nelle persone che ne fanno parte una cultura relazionale
- Il loro focus sulle relazioni faccia a faccia radica la propria rete di associazioni nei bisogni, interessi, risorse e istituzioni locali
- Iniziano, sostengono e valutano in modo consistente soluzioni creative a problemi complessi, a volte apparentemente irrisolvibili
- Hanno un’ossessione per la comprensione delle relazioni di potere al fine di lottare per il riconoscimento e il vantaggio strategico dei cittadini
- Acuiscono la tensione tra i valori e il reale comportamento delle organizzazioni che ne fanno parte
- Investono nello sviluppo delle capacità dei leader e degli organizer, sia concettuali che pratiche, che si traducono in un’azione, valutazione e riflessione pubbliche.
«Nel frattempo – scriveva Barack Obama nel 1988 a conclusione della sua esperienza di community organizer a Chicago – gli organizer continueranno a costruire sui successi locali, imparare dai numerosi errori e reclutare e formare nuclei piccoli ma crescenti di leader – madri in assistenza sociale, postini, autisti degli autobus e insegnanti, ognuno dei quali ha una visione e memorie di quello che le comunità possono essere. Infatti, la risposta alla domanda originale – perché organizzare? – risiede in queste persone. Nell’aiutare un gruppo di casalinghe a sedere al tavolo del negoziato con il sindaco della terza città più grande degli Stati Uniti. In cambio, il community organizing insegna come nient’altro la bellezza e la forza delle persone comuni. E’ attraverso le loro storie che gli organizer possono dar forma a una senso di comunità non solo per gli altri, ma anche per sè stessi».