A partire da Tor Pignattara, perché il community organizing a Roma
Provo a spiegare il community organizing per come l’ho appreso lavorando negli Stati Uniti e confrontandomi con il direttore dell’organizzazione di Berlino DICO, padre Leo Penta, a partire dai risultati della ricerca “Luoghi comuni, luoghi in comune. Percorsi di dialogo e conoscenza a partire dai luoghi di culto della Provincia di Roma”, incentrata su Tor Pignattara.
– Organizzare per avere dialogo e influenza sulle istituzioni
– “Non fare mai per gli altri quello che potrebbero fare da soli”
– Coltivare una “base allargata”
– Organizzazioni “relazionali”
– Organizzare per avere dialogo e influenza sulle istituzioni
“Il community organizing parte dalla premessa che i problemi che devono affrontare le comunità dei quartieri disagiati non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci, ma della mancanza di potere per implementare queste soluzioni”.
Barack Obama, “Why Organize?”, Illinois Issues, 1988
“Siamo preparati a discutere, ascoltare, rivedere i nostri punti di vista, e fare compromessi in cambio del rispetto e della volontà di arrivare a un compromesso da parte di chi detiene il potere. Non vogliamo essere il tutto. Vogliamo e insisteremo per essere riconosciuti come una parte vitale di esso”.
Industrial Areas Foundation, “Standing for the Whole”, 1990
“È per questo che quando siamo chiamati da un leader religioso o di quartiere di una città, gli diciamo che non verremo per risolvere un problema abitativo o educativo o salariale. No, diciamo che tenteremo di risolvere un problema più fondamentale: un problema di potere”.
Michael Gecan, “Going Public. An Organizer’s Guide to Citizen Action”, Anchor Books, 2004, p. 9
E’ per questo che le tante iniziative di autorganizzazione e autogestione pure esistenti a Roma non producono cambiamenti nelle politiche pubbliche della città. Perché non si pongono il problema di come influenzarle. Le danno per immodificabili, e questo perché non cercano di costruire il potere necessario a farlo.
La ricerca:
“Tutti lamentano l’abbandono da parte delle istituzioni. Tutti parlano di servizi carenti”.
Anche secondo padre Edmilson Mendes, parroco alla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro ad duas lauros, la difficoltà che i cittadini avvertono in relazione alle istituzioni è uno dei problemi primari del quartiere, perché produce un sentimento di sfiducia diffusa che investe anche altri ambiti della vita:
Prima di tutto la mancanza di fiducia della gente nelle istituzioni. Questo è visibile. C’è quasi una rassegnazione rispetto a questa inoperatività, mancanza di comunicazione con le istituzioni. La gente non crede più ai politici, non crede più alle istituzioni. Magari non crede più neanche in se stessa (Padre Edmilson Mendes, intervista del 14.02.2015).
“Secondo padre Edmilson Mendes l’autogestione da parte dei gruppi di fedeli può comportare disagi nei rapporti con il resto della popolazione, che una mediazione più efficace attuata dalle istituzioni potrebbe lenire:
‘Difendono i diritti loro, per carità, ma penso che qui manca la mediazione delle istituzioni. La presenza delle istituzioni'”. (Padre Edmilson Mendes, intervista del 14.02.2015)
– “Non fare mai per gli altri quello che potrebbero fare da soli”
Questa è quella che i community organizer chiamano la loro “regola di ferro”. I community organizer sono figure professionali con il compito di creare relazioni e individuare e formare i leader in grado di condurre campagne, non conducono le campagne in loro vece.
“La nostra cultura della leadership si focalizza sul processo di identificare, coinvolgere, e sviluppare le persone intorno alle LORO motivazioni, interessi, e talenti, non questioni o cause preconfezionate”.
“IAF leadership culture”, dispensa per la formazione
“Diamo valore a leader che non sono “naturali”, che hanno difficoltà a parlare, persone senza battute pronte per i media. Crediamo che nessun singolo leader sia necessario, ma una collettività di leader. (…) Creare il contesto per lo sviluppo di leader è il nostro lavoro centrale”.
Industrial Areas Foundation, Standing for the Whole, 1990
Questo fa sì che le organizzazioni create attraverso il community organizing vedano continuamente alimentata la loro base, e impedisce che si formi un’élite composta da figure chiave inamovibili.
La ricerca
“Quasi mai si registrano approcci improntati su relazioni realmente paritetiche, che non sfocino nell’assistenzialismo. Pochi vedono nel migrante semplicemente una persona, astenendosi di etichettarlo come un nemico, un problema, un indigente” (conclusioni).
Danilo Chirico, associazione DaSud, dice che “non ci sono immigrati nei comitati di quartiere”.
– Coltivare una “base allargata”
Le organizzazioni IAF sono associazioni di organizzazioni, non di individui. Le organizzazioni coinvolte sono quelle definite dagli organizer “ancora”, ossia punto di riferimento per il territorio. Scuole, chiese, moschee, sindacati, centri di aggregazione, associazioni di immigrati, comitati di quartiere in grado di rappresentare luoghi di socializzazione per la comunità locale e una base di riferimento stabile nel tempo per persone anche molto diverse tra loro.
“Abbracciare la pluralità – coltivare deliberatamente una mescolanza di credi, etnie e classi – porta forza pubblica a un collettivo come nient’altro riesce a fare. Le organizzazioni a base allargata forti si muovono sempre verso l’inclusione. Quando riescono, privano i politici della strategia del divide et impera”.
Edward T. Chambers, “Being Triggers Action”, 2009
La caratteristica del community organizing è che non approccia le persone come individui isolati, ma attraverso le loro connessioni sociali, attingendo e crescendo dalla storia, la cultura e l’identità condivise che già esistono tra le persone. Questa strategia fornisce la stabilità necessaria a intraprendere progetti di lungo termine per la rivitalizzazione della comunità e sostenere gli sforzi anche durante difficoltà o arretramenti. Molte campagne per avere successo richiedono infatti un’organizzazione capace di mantenere alta la pressione sulle istituzioni per un lungo periodo di tempo, dotata di una continuità organizzativa tale da consentire un impegno protratto.
La ricerca
Ci sono tanti gruppi, ognuno difende il suo progetto, la sua proposta, e ha apertura solo verso il suo ceto politico o sociale. Non vi è ascolto degli altri. Perciò dipende da che parte sei, a volte. Questa è una grossa difficoltà, secondo il nostro modo di vedere. Questa è più che altro una visione personale: questa chiusura delle persone, che si chiudono sempre di più in se stesse, che non hanno fiducia negli altri, del lavorare insieme. Ognuno cerca di difendere il suo ruolo personale (Padre Edmilson Mendes, intervista del 14.02.2015).
Queste esperienze di laboratori di quartiere, di laboratori di cittadinanza attiva, in genere hanno una durata limitata nel tempo. Lo dico per esperienza, da sei mesi a massimo due o tre anni: poi si sciolgono. (Renato Mastrosanti, intervista del 17.11.2014).
Su gran parte dei comitati: “sono poche persone che hanno costituito delle sigle” (Renato Mastrosanti).
La scuola diviene per i cittadini stranieri e le loro famiglie, un fondamentale fattore di “ancoraggio” sociale, il luogo nel quale avviene un concreto incontro tra le persone di nazionalità italiana e straniera.
Un luogo determinante per l’inclusione sociale, che favorisce contatti spontanei, scevri da aspetti ideologici o da forzature, è l’oratorio:
È molto forte la presenza di stranieri di qualsiasi religione all’oratorio, in particolare al campetto, che è un centro di forte aggregazione, dove vengono accolti tutti. L’oratorio svolge la sua funzione come luogo di ritrovo, di iniziative varie, feste varie (Padre Mario Trainotti, intervista del
27.10.2014).
– Organizzazioni “relazionali”
“Per creare relazioni la IAF tenta di sviluppare legami personali forti tra persone di organizzazioni diverse, così come etnie diverse e diversa estrazione sociale. Attraverso gli incontri relazionali uno a uno le persone sono incoraggiate a parlare delle esperienze profonde che hanno dato forma alla loro vita. Questo processo non è un veloce preambolo prima di tornare a ‘parlare delle cose importanti’. La condivisione delle esperienze di vita crea un legame intimo tra persone diverse, e la fiducia necessaria per la cooperazione tra gruppi”.
Charles Dobson, “A Guide to Community Organizing”, 2002
Le “arti leggere” sono necessarie per costruire un’organizzazione durevole basata sul potere relazionale. Le organizzazioni con i problemi organizzativi più seri – piccolo seguito, pochi fondi, organi direttivi in affanno, leader disconnessi – sono quelle che hanno tentato di costruire attivismo senza trasformare la cultura organizzativa dei loro membri. Queste organizzazioni non si muovono mai al livello più profondo dell’interesse personale e organizzativo, non attingono mai alle enormi riserve di talento e energia presenti al loro interno, e di conseguenza divengono dirigiste, precarie e esili. Strumenti chiave per le arti leggere sono: ascolto, empatia, premurosità e rituale.
Larry B. McNeil, “The Soft Arts of Organizing”, Social Policy, n. 17, 1995
L’80% del community organizing si basa sulla pratica degli incontri relazionali. Gli incontri relazionali sono incontri uno a uno, faccia a faccia, della durata di circa 30-45 minuti. Lo scopo dell’incontro non è reclutare le persone, né vendere l’organizzazione o una causa specifica. Sono fatti per comprendere la storia e gli interessi dell’altra persona, guardare nel suo talento, energia e visione.
La ricerca
I luoghi di culto degli immigrati rischiano “di tramutarsi in una gabbia di disintegrazione” (Conclusioni).
Padre Mario Trainotti, parroco della chiesa di San Barnaba: la sfida è proprio quella di cercare il
dialogo, l’integrazione, di cercare di conoscersi. Ma specialmente di cercare di dialogare, quella è la cosa più difficile (Padre Mario Trainotti, intervista del 27.10.2014).
Io dico sempre che per creare una comunità bisogna sviluppare un significato comune di identità, anche se multipla, e dell’appartenenza. Se questo non c’è, come fai a pretendere che uno che si sente emarginato, diverso, escluso, “altro da voi”, “io straniero, voi italiani”, debba pagare il biglietto sull’autobus e non debba fare un po’ di sfregi andando in giro per strada, lasciando in giro la bottiglia vuota, lì dove si trova? Cioè: ma che m’importa, mica il quartiere è mio. Sì, ci vivo in questo momento storico della mia vita, ma non ho niente da condividere con gli altri. Questo è il punto: una comunità che ha delle regole comuni ha bisogno di una struttura di base e di un’identità comune. (Renato Mastrosanti, intervista del 17.11.2014).
– Gli obiettivi
I temi emersi dalla ricerca come problematici per il quartiere sono tutti temi di potenziale azione di community organizing.
- Scarsa illuminazione
- Spaccio
- Mancata raccolta rifiuti
- “Affitto a materasso”
- Assenza spazi adeguati per luoghi di culto
Sono problemi locali, la cui responsabilità ricade sulle istituzioni locali, che generano rabbia negli abitanti, che hanno soluzioni potenziali abbastanza semplici, e i cui risultati sarebbero tangibili.
La IAF generalmente spende diversi anni di paziente costruzione di alleanze prima che una organizzazione locale sia formalmente costituita.
«Si comincia con le questioni piccole e vincibili – aggiustare un lampione, mettere un cartello di stop. Poi ci si sposta su preoccupazioni più grandi, rendere una scuola un luogo sicuro e civile per i bambini. Poi ci si sposta su problemi ancora più grandi». (Cortes 1993)
Lì dove esistono da molti anni, hanno prodotto risultati tangibili come:
– Rifugiati. La campagna “Refugees Welcome” dell’affiliata inglese Citizens UK ha portato 40 diversi consigli comunali a impegnarsi per l’accoglienza di 50 rifugiati per un totale di 3.047 persone. Lo schema comporta l’accoglienza dei rifugiati direttamente dai campi profughi, evitando così ai richiedenti asilo il lungo, costoso e pericoloso viaggio per raggiungere l’Europa. A Berlino l’affiliataDICO sta sperimentando l’uso del community organizing anche per creare relazioni e fiducia tra cittadini e rifugiati. I rifugiati organizzati insieme a leader della società civile hanno già ottenuto una prima vittoria con l’apertura dei tendoni riscaldati anche durante la notte per accogliere le centinaia di persone in fila davanti agli uffici di LaGeSo, costrette prima a passare la notte al gelo sul marciapiede.
– Salario minimo vitale. La IAF ha ottenuto l’approvazione nel corso degli anni ’90 di una serie di risoluzioni per la garanzia del salario minimo vitale in più di 100 città degli Stati Uniti e a Londra in occasione delle ultime Olimpiadi. L’economista del MIT Paul Osterman ha calcolato che la campagna della IAF nella Rio Grande Valley del Texas ha incrementato i salari della regione di 9.3 milioni di $ all’anno.
– Lavoro. In Texas, Lousiana e Arizona sono riusciti a far finanziare progetti di formazione al lavoro che hanno portato 12.000 persone fuori della soglia di povertà. Project QUEST nella città di San Antonio ha ricevuto il premio per l’innovazione dall’Università di Harvard.
– Scuole. Hanno ottenuto il finanziamento di programmi doposcuola come l’Autorità Child First a Baltimora (che serve 1400 allievi ogni anno). Secondo una ricerca della Brown University, in Texas, grazie all’attività della IAF, è aumentato in media del 15-19% il successo nei test standard degli allievi e il coinvolgimento attivo di genitori e insegnanti nelle scuole.
– Case. La costruzione di oltre 4.500 case a prezzi calmierati in quartieri degradati denominate “Neemia” (dal nome del profeta che ricostruì Gerusalemme) solo a New York, la ristrutturazione di 18.000 case abbandonate o deteriorate, quasi 3 miliardi di fondi pubblici e privati ottenuti per l’accesso alla casa.